
La Giustizia Riparativa nei casi di violenza domestica: da strumento da maneggiare con cura a strumento di cura
Dottoressa Alessia Solombrino
Giudice del Tribunale di Bergamo, sezione del Giudice per le indagini preliminari e dell’udienza preliminare.
Accingendomi a scrivere questa breve riflessione, il mio pensiero è andato ad Olga, Zahira, Naseem, Maria, Diona, Amina, Elisa[1], alle donne che in molteplici occasioni ho guardato negli occhi, mentre perdonavano anni di violenze e angherie sopportate in silenzio, perché era giusto concedere una seconda possibilità, perché non era colpa di nessuno o forse era colpa dell’alcool, della cocaina, della disoccupazione ,dei problemi economici, dei figli o della loro incapacità di essere madri, mogli, compagne.
Ho pensato ai loro volti quasi impassibili, anestetizzati, immobilizzati come in una tela di ragno, mentre accettavano una riconciliazione con l’uomo che le aveva ferite, per non rovinare la famiglia, perché dissuase dai parenti e dalle pressioni sociali o perché avere accanto un compagno era comunque un male necessario, meglio che restare da sole, senza soldi, senza lavoro, senza radicamento sul territorio, consapevolmente prive di capacità e valore, annichilite da una sorta di impotenza appresa all’interno rapporto in grado di conoscere la sola modalità della subordinazione e della prevaricazione.
E’ possibile avviare una mediazione in relazioni come queste, in cui non vi è parità, ma squilibrio, specialmente in una società che ancora fa fatica a riconoscere la violenza all’interno della coppia e, piuttosto, la confonde con il conflitto?
L’esperienza giudiziaria insegna.
Ancora tante, troppe, le vicende in cui sono gli stessi operatori -giudici, avvocati, pubblici ministeri- a perpetuare stereotipi di relazioni intime intrinsecamente fondate sulla possessività e la sottomissione, occultando regimi di vita avvilenti e mortificanti dietro la cortina del rapporto “burrascoso”, “tumultuoso”, “turbolento”, negandoli in assenza di atti di violenza fisica o giustificandoli con il credo religioso, con le convinzioni culturali, con le condizioni di disagio sociale, addirittura con la natura incontenibile degli uomini, specialmente laddove “provocati”.
E ancora tante, troppe, le difficoltà applicative e le criticità dello stesso sistema della Giustizia Riparativa, che, ispirato ad una risoluzione quasi etica della controversia penale, introduce un metodo di gestione dei conflitti affidato non alla garanzia della giurisdizione, ma ad una figura che pare un misto tra psicanalista e parroco -come qualcuno ha detto-, con la pericolosa deriva di una trasfigurazione del reato da categoria giuridica a evento psicosociologico: un modello rivoluzionario che forse non siamo ancora culturalmente pronti ad accogliere, perché sconvolge l’idea retributiva posta al centro del diritto penale della libertà e del sistema del processo penale, che non incontra, ma prende le distanze da chi ha fatto del male, rispondendo all’esigenza insopprimibile e istintiva dell’animo umano di isolare il ribelle, oltre che alla radicata convinzione che il male debba essere ricompensato con il male e che, proprio per questo, il delitto produca castigo, certamente non perdono e accettazione.
Il risultato è che il percorso della giustizia riparativa, già reso difficile dall’assenza di mezzi, risorse e soprattutto formazione, nonostante siano trascorsi oltre due anni dall’entrata in vigore della Riforma Cartabia, diventa apparentemente impraticabile se tracciato sul terreno accidentato della violenza domestica, ove l’idea dell’ascolto e del dialogo propria dell’incontro impatta inevitabilmente con la disparità dei poteri di contrattazione di ciascuna delle parti coinvolte, una delle quali evidentemente più debole dell’altra e per ciò solo troppo vulnerabile di fronte ad atteggiamenti manipolativi che tendono a perpetuare il preesistente rapporto di forza sul quale si è radicata la condotta delittuosa.
Non a caso, mentre da un lato, l’Handbook for Legislation on Violence against women emanato dalle Nazioni Unite nel 2009, vieta espressamente la mediazione in tutti i casi di violenza contro le donne sia prima che durante il procedimento legale, -al fine di evitare che le relative vicende siano sottratte al controllo giudiziario e che la probabile debolezza delle vittime riduca la responsabilità del reo-, per altro verso, la Convenzione di Instanbul dell’11 Maggio 2011, ratificata dall’Italia con la Legge 27 Giugno 2013, n. 77, contiene l’espresso divieto agli Stati di introdurre l’obbligatorietà di strumenti alternativi alla giurisdizione nei reati in materia di violenza di genere[2].
Al riguardo, osservando i tempi e le modalità applicative della Giustizia riparativa, non può davvero sottacersi che il confronto nell’ambito dei rapporti di forza renda assai elevato il rischio di un’amplificazione delle diseguaglianze e delle disparità tra le parti, inducendo la parte debole (solitamente coincidente con la donna) -la quale già si colloca in una posizione di soggezione nei confronti dell’autore dell’offesa-, ad una seconda vittimizzazione, sia nell’adesione al programma -magari motivata da sensi di colpa e non da una volontà consapevole-, sia nella fase di partecipazione, suscettibile di esprimersi, ancora una volta, con il totale adattamento dei propri bisogni a quelli dell’autore del reato.
Sia, infine, nell’esito, magari implicante l’accettazione di scuse non sincere, frequentemente usate nelle relazioni violente, proprio per riconquistare il favore della donna[3].
Ed è del pari è evidente il rischio di una sorta di “bagatellizzazione” di condotte deplorevoli, proprio a causa dell’atteggiamento manipolatorio dell’offender violento, diretto a minimizzare episodi anche gravi e suscettibile di prendere il sopravvento in un procedimento sostanzialmente improntato all’oralità e all’informalità -evidentemente necessarie ai fini dell’individualizzazione del percorso- e per ciò solo foriero di distorsioni e difformità applicative, laddove non correttamente gestito dagli operatori, titolari di ampi poteri discrezionali nel controllo delle discussioni e nella decisione.
In via generale, la maggiore preoccupazione palesata già dai primi commentatori della riforma ricade sulla concreta possibilità che, accettando il ricorso alla giustizia riparativa nei casi di violenza domestica, si pervenga ad una sorta di “ri-privatizzazione della violenza di genere”, un ritorno al passato, in cui il fenomeno era ritenuto un problema da gestire all’interno della famiglia, con la speculare rinuncia dello Stato ad addentrarsi nelle mura domestiche, vuoi per i figli e gli strascichi nei contenziosi civili, vuoi per un frame culturale riconducibile al vecchio detto “fra moglie e marito non mettere il dito”[4], l’antica concezione, non del tutto superata, che “la famiglia è un’isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto”[5], e in via più generale giustificata dai limiti imposti allo Stato liberale di diritto, al quale, si dice, è negato di accedere al foro interno ed imperscrutabile della coscienza individuale, dei sentimenti, delle emozioni.
Si riproporrebbe in tal modo quello stesso modello di approccio ormai superato e inaccettabile, che per decenni ha impedito di affrontare adeguatamente il contrasto e la prevenzione del fenomeno della violenza domestica, proprio perché ritenuto una questione meramente privata, sottratta alle maglie della giurisdizione.
Infine, non può sottacersi la già rimarcata attuale mancanza di formazione specifica sui reati endofamiliari da parte degli operatori, i quali dovrebbero essere in grado di riconoscere e gestire le varie declinazioni della violenza, prima di dar corso ad un programma in cui vittima e persona indicata come autore dell’offesa sono di regola destinati ad incontrarsi, specialmente laddove l’intervento avvenga in un momento in cui l’accertamento di quella rottura dei rapporti da riparare non è ancora avvenuto e magari l’indagato/imputato nega addirittura che vi sia stato.
Sul punto, è nelle intenzioni del legislatore che il modello della Giustizia senza spada corra su un piano parallelo a quello del processo penale, perseguendo nobili fini di sutura delle ferite, disinteressandosi candidamente di quanto accade nel parallelo binario del processo e pretendendo dai suoi attori un’adesione altruistica, anelante soltanto all’incontro con l’altro, come dimostrato dal glossario stilato dall’art. 42 D.L.vo n. 150/2022.
Ma è altrettanto evidente che “quel binario finisce per incagliarsi nel binario del processo penale, perché la riparazione fa leva sul processo penale in corso, vi si appoggia, e ne avvale, lo sfrutta come latore di informazioni e si insinua nelle sue pieghe per allettare, con ricadute sanzionatorie positive, l’imputato”.
Ci si chiede allora, in primo luogo, come il tracciato impegnativo e spesso doloroso imposto dal cammino riparativo possa conciliarsi con situazioni che più di altre ancorano la “riparazione” a quella che viene definita la più intima afflizione del reo, l’ammissione del male commesso, forse un rimorso, una consapevolezza, quelle scuse a cui anela la donna che ha subito o subisce violenza, a fronte del vantaggio processuale al contrario perseguito dalla persona indicata come autore di quella violenza, che spazia dall’intento di evitare un processo e una sanzione alla possibilità di ottenere una riduzione di pena.
In secondo luogo, come il mondo della mediazione possa interagire con la allarmante fluidità dell’attività investigativa finalizzata a raccogliere e preservare la prova nei casi di violenza domestica, con i suoi stalli, i repentini sviluppi, le continue interferenze, le probabili inversioni di marcia destinate a sfociare in dichiarazioni di remissione della volontà punitiva se non in vere e proprie ritrattazioni; il rischio è, in definitiva, quello di un pain-widening effect, un aumento del carico di afflizione ed impegno e, per l’effetto, un plus soffrire di ciascuna delle parti coinvolte, non soltanto inutile ma addirittura controproducente, sia sotto il profilo processuale che in relazione ad una pericolosa riattivazione della c.d. spirale della violenza, magari con conseguenze ancora più drammatiche.
Pur consapevole della reale portata delle criticità rilevate, mi chiedo tuttavia se non valga la pena di provare anche questa strada.
E’ noto a tutti il rilievo assunto nella politica criminale internazionale ed europea dal contrasto al fenomeno della violenza domestica, a partire dalla già richiamata Convenzione di Instanbul, che ne ha coniato la definizione[6], comprensiva di tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima.
E’ nota, altresì, la progressiva apertura del sistema penale al riconoscimento delle forme di violenza psicologica che subdolamente accompagnano e quasi sempre precedono la violenza fisica, configurandosi quale cronica e quotidiana modalità relazionale, attuata con atteggiamenti intimidatori, denigratori e tattiche di isolamento della vittima -nel 90% dei casi una donna-, da parenti, amicizie, luoghi e abitudini, con l’effetto di destrutturarne l’impianto emotivo.
Ed è infine sotto gli occhi di tutti la rilevanza della questione nel panorama legislativo italiano, ove, alla norma cardine rappresentata dall’art. 572 C.P. -e negli ultimi anni rafforzata con un significativo inasprimento sanzionatorio-, sono stati affiancati plurimi interventi sotto il profilo processuale, con strumenti che attribuiscono alla vittima di violenza di genere e in particolare di violenza domestica, una inedita centralità nella vicenda giudiziaria in cui è coinvolta, oltre che strumenti di tutela amministrativa e civilistica, come gli ordini di protezione contro gli abusi familiari che siano causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente.
Eppure, a fronte di continue manifestazioni di pubblica condanna del fenomeno, seguite quasi sempre da massicci interventi repressivi del legislatore, con l’inflizione di punizioni draconiane e l’introduzione di rigidi meccanismi sanzionatori inattaccabili dalla discrezionalità dei giudici, la cifra nera relativa agli abusi domestici continua ad essere drammaticamente alta, raggiungendo quasi il 68% nel corso dell’anno 2024, con un allarmante aumento delle violenze subite dalle donne ad opera dell’ex partner ed un numero ancora troppo elevato di c.d. femminicidi.
Dov’è la debolezza del sistema?
Può davvero continuare a ritenersi che le ragioni della sua fallacia siano ascrivibili alla persistente presenza nella società di modelli culturali ancora troppo radicati, che inducono a considerare manifestazioni di violenza di genere come “accettabili” o comunque plausibili o ancora non criminalizzabili in un determinato contesto?
Mi chiedo se la ragione non vada piuttosto ricercata nella problematica afferente la crisi dei postulati della funzione intimidatrice della pena quale unico strumento di prevenzione generale e speciale, destinata ad essere avvertita in tutta la sua gravità in un ambito del diritto penale speciale, quale quello della violenza domestica, in cui, a fronte di una ipertrofia della legislazione e di un’inflazione della sanzione penale rispetto ad altri strumenti dissuasivi, il fallimento o l’apparente successo della punizione finiscono per dipendere da variabili oggettive preesistenti alla sua applicazione, -quali l’esistenza per il singolo di una solida rete esterna al sistema giudiziario o l’attivazione di percorsi specializzati-, rilevandosi in caso contrario un rischio assai elevato di recidivanza, a volte aggravato dall’alto grado di marginalità e di esclusione sociale in cui sono confinati i soggetti maltrattanti in condizioni di dipendenza, con un drammatico effetto desocializzante. Reso inevitabile dalla difficoltà di recuperare i rapporti familiari secondo modelli relazionali diversi dallo stereotipo della dominazione del genere maschile su quello femminile, in una spirale senza fine che si autoalimenta e si autodivora, come il mitico Saturno.
La verità è che, specialmente in questo ambito, a dispetto di draconiane risposte giuridico-processuali ancorate alla vulnerabilità delle vittime, -con una allarmante espansione del bisogno di trattamenti sanzionatori severi victim addicted, elaborati con un background emotivo, come “una sorta di ansiolitico che il legislatore tende a sovradosare nella speranza di rendere più certa la sedazione sociale perseguita”[7] e che finisce per alimentare la paura e l’intransigenza -, vale l’assunto secondo cui la punizione non fa cambiare, sicché “l’omaggio tributato con reiterato rigore alle virtù salvifiche della prevenzione generale negativa (e cioè puramente intimidativa) spinta sino al parossismo, è vano e vuoto”[8].
E anche la rivendicata attenzione alla figura della persona offesa dei reati endofamiliari da parte del legislatore degli ultimi decenni francamente non pare avere ricadute positive nell’approccio delle vittime-donne all’istituzione giudiziaria, che è sempre difficile se non traumatico, con rischi di una vittimizzazione secondaria comunque sempre assai elevati, tanto che il ricorso ai Centri di violenza resta ancora oggi lo strumento ritenuto preferibile rispetto alla denuncia alle Forze dell’Ordine.
Sul punto, la carente organizzazione di sistemi di supporto e di ascolto esclude infatti il ricorso a modelli differenti per la vittima di reati di violenza domestica, la quale ha lo stesso trattamento di tutte le altre vittime, secondo un one size fits all approach che non la rassicura nella difficile opera di rievocazione dei fatti e piuttosto la costringe a rivivere un’esperienza dolorosa, con la consapevolezza e la paura del rischio di non essere creduta.
Soprattutto, al di là del profilo strettamente istruttorio, finalizzato all’accertamento dei fatti attraverso l’assunzione della prova orale, la vittima non ha alcuna voce nella gestione degli eventi penalmente rilevanti all’interno del processo: il sistema della giustizia penale tradizionale, arroccato su posizioni conservatrici, si attiva per garantirne l’incolumità psicofisica, ma di fatto non necessariamente ne “ascolta” la voce, collocandola, perfino all’interno delle aule di giustizia, alle spalle del Pubblico Ministero e dell’imputato, i quali non ne incrociano neppure lo sguardo, mentre il giudice, salvo che non vi sia costituzione di parte civile, non la interpella praticamente mai, lasciandola passiva e silente spettatrice di quel che accade nel processo, quasi fosse un accadimento che non la riguarda.
Quel che si fotografa è un sistema di giustizia che, focalizzando l’attenzione esclusivamente sul dato oggettivo del reato -rappresentato dall’evento ormai verificatosi-, appiattisce l’autore e la vittima nei rispettivi ruoli, perdendo di vista la dimensione “relazionale” del fatto lesivo e, specialmente nell’ambito della violenza di genere, non soddisfa quelle esigenze che si sviluppano in una dimensione simbolica e pedagogica, legata alla necessità di identificare e comprendere i fattori -sociali, culturali, individuali- che hanno in qualche modo favorito la commissione della condotta criminosa[9].
Si verificano, in definitiva, le medesime distorsioni e gli stessi pericoli allegati da chi tenta di dissuadere dal ricorso alla giustizia riparativa per le ipotesi di violenza domestica, giacchè la vittima, al di là dell’attivazione di meccanismi paralleli a quello processuale ovvero del ricorso alla carcerazione preventiva, viene comunque lasciata sola nel processo e, con il trascorrere del tempo e la dilatazione dei tempi della giustizia, finisce quasi sempre per ridimensionare o ritrattare le dichiarazioni originariamente rese, come hanno fatto Olga, Zahira, Naseem, Maria, Diona, Amina, Elisa -legate ai loro carnefici da un rapporto ambivalente ovvero gravate da pressioni familiari o terrorizzate dal rischio di atteggiamenti ritorsivi- indebolendo l’impianto probatorio allegato a sostegno dell’accusa e, specularmente, rafforzando la propria condizione di vulnerabilità e di dipendenza.
A questo va aggiunta un’ulteriore considerazione, a mio giudizio non meno significative delle altre.
Il diritto vivente, con la lente di un approccio esasperatamente paternalistico che ne enfatizza la vulnerabilità[10], considera la vittima meritevole di una tutela incondizionata, negandole tuttavia spazi di riconoscimento all’autodeterminazione o all’autoresponsabilità, ingenerando fenomeni di “stereotipizzazione e di stigmatizzazione” che, specialmente per le donne vittime di violenza domestica, si riflettono negativamente sulle capacità e sull’autonomia personale delle tutelate, confermandone la condizione “minorata”, deficitaria e dipendente e rendendone ancora più difficile non soltanto la cura reale, ma proprio l’emancipazione.
In altri termini, riconoscere al diritto penale -oggi sempre più identificato con la politica criminale-, il compito di proteggere la vittima, rischia di non dare “nulla di concreto” a quest’ultima, pur raddoppiando il male, sia per la stessa vittima che per l’autore del reato[11].
D’altro lato, come è stato osservato, se non si può “buttar via la chiave”, se non si possono comminare e infliggere pene esemplari, se si deve rimettere in libertà il detenuto dopo un certo numero di anni e a certe condizioni, la domanda di giustizia delle donne vittime di violenza domestica e della società deve comunque poter trovare soddisfazione, eventualmente anche attraverso strade diverse da quelle del processo e della pena, che conducano alla responsabilizzazione ed alla socializzazione del reo e della vittima[12].
Ecco che allora che allora il paradigma della giustizia riparativa si ripropone, quale possibile meccanismo di avvicinamento della vittima al conflitto, in una prospettiva finalizzata a restituirle un ruolo attivo nella gestione delle conseguenze del reato, contrastandone la spersonalizzazione, con modalità di funzionamento destrutturate e informali più vicine alla persona rispetto alle tipiche ritualità del sistema di giustizia ordinario, da sempre pharmakon dall’essenza fredda e distaccata e per questo temibile[13] e traumatizzante[14].
Provando a tracciare i contorni della c.d. Restorative Justice, la definizione unanimemente riconosciuta è quella proposta dal criminologo Howard Zehr, il quale, -rintracciandone le origini nelle comunità indigene del Nord America e in quelle Maori della Nuova Zelanda che la utilizzavano per mantenere stabilità e coesione sociale-, adotta un concetto olistico, descrivendola come un modello di giustizia alternativo che “coinvolge la vittima, il reo e la comunità, alla ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione ed il senso di sicurezza collettivo”[15].
Più tardi, la Risoluzione delle Nazioni Unite n. 12/2002 la definisce come “ogni procedimento nel quale la vittima e il reo, se opportuno, ogni altro individuo o membro della comunità leso da un reato, partecipano insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte con l’illecito penale, generalmente con l’aiuto di un facilitatore”.
Non trattamento, non terapia, non lavoro socialmente utile, il paradigma riparativo incentiva “l’instaurazione di una dinamica dialogica fra i soggetti coinvolti dalla commissione del reato”, secondo una inedita concezione di <<responsabilità attiva>>, “che proietta l’inflizione della pena nell’orizzonte futuro della risocializzazione e della reintegrazione del reo, affrancato dalle logiche della <<responsabilità passiva>> che cristallizza il passato e lo ancora alla commissione del reato, impedendo il ristoro delle conseguenze dannose che ne sono derivate”[16].
Ed è proprio in questa dinamica dialogica che il reato non assume più soltanto i connotati di un evento di rottura del patto sociale, ma diventa primariamente un fatto che turba, oltre che la collettività, l’esistenza delle persone in carne e ossa contro cui si dirige, e queste ultime, le vittime, non sono più costrette a rinchiudere le proprie attese dentro il solo processo o al contrario a restarne fuori, relegate al ruolo di mero strumento probatorio, e piuttosto riacquistano la voce.
L’autore del reato nel paradigma riparativo-mediatorio non ha la vittima alle sue spalle ma di fronte, ed è per l’effetto obbligato a guardarla, facendosi carico del dolore, dello sconcerto, della rabbia dalla stessa sperimentata in conseguenza del reato, in conformità con la concezione hegeliana del castigo non più in rapporto alla legge, ma nel suo rapporto con la vita: la punizione è la sofferenza non in una relazione astratta con la legge, ma nell’esperienza concreta, nel guardare l’esistenza anteriore come un nemico dal quale poter prendere, con sforzo o sacrificio, le distanze, secondo un concetto di giustizia non più solo verticale, ma orizzontale[17].
E’ un approccio forse dimenticato, ma non assente dalla cultura media del penalista italiano, scolpito da un importante passaggio della sentenza n. 179/2017 della Corte Costituzionale, che dispiega il significato del termine “rieducazione” oggetto del mandato costituzionale dell’art. 27 terzo comma, Cost. (“le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”) indicando quattro obiettivi tutti contraddistinti prefisso “ri” (quasi ad alludere ad un nuovo inizio): “la Costituzione pretende che la pena non solo sia confinata alla misura minima necessaria e sia contenuta entro i limiti della proporzionalità, ma sia altresì orientata allo scopo di favorire il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale del condannato”.
Riparare vuol dire assumere la consapevolezza che il “prima” non potrà mai essere recuperato da nessuna azione positiva.
Per l’autore della violenza vuol dire affrontare la paura: di tornare a sbagliare, di vivere ancora la solitudine e l’abbandono. Occasione inedita per mostrarsi alla vittima per ciò che si è e restituirle uno spazio di dignità.
Specularmente, per la vittima, ascoltare il proprio aggressore significa coglierne le fragilità e il senso di inadeguatezza che lo pervade nella relazione. Esprime in questo senso un concetto diverso dal perdono, -che resta un fatto privato, interiore, affidato a logiche imperscrutabili- e piuttosto racchiude l’idea di costruire una responsabilità, il riconoscimento della reciproca e comune umanità di vittima e autore, al di là del dolore e della ingiustizia di quanto è accaduto[18].
Ciò verso cui tendere diventa allora il riconoscimento reciproco delle proprie esperienze emotive[19], per approdare, se possibile, ad una definizione condivisa proprio dell’episodio criminoso in termini di vero e proprio reato, di ferita: non far conoscere il male, ma comprenderne le ragioni, “al fine di non fare del singolo individuo il capro espiatorio di una società intera”[20], perché francamente il vero problema della rieducazione è sempre più quello di quale titolo possa avere in merito questa nostra attuale società che, avendo operato una sistematica distruzione dei valori e della stessa categoria mentale del “limite”, dovrebbe prima rieducare se stessa.
Senza la mediazione di un avvocato, senza testimoni, senza un giudice, e con l’aiuto di un mediatore che come in una paressia pone le parti al cospetto dell’autenticità dell’altro, in uno scambio privo dei filtri e delle strategie utilitaristiche imposti dal gioco processuale, l’autore e la vittima vengono messi nelle condizioni di ricostruire qualcosa che è diverso dalla verità giudiziaria, inducendoli non a credere nella storica oggettiva esistenza degli accadimenti narrati, ma a percepire l’esatta corrispondenza tra ciò che l’altro dice e pensa, rafforzando la fiducia che è alla base di ogni riconciliazione[21].
Un gioco di verità che sigilla il patto di franchezza entro il quale la vittima ascolta verità oltraggiose e a sua volta racconta qualche altra verità drammatica e conturbante.
Perché è proprio questo che integra la componente morale o, meglio, emozionale, del vulnus che la vittima ha subito e che nessun giudice potrà mai monetizzare: la risposta al bisogno di vedere la propria sofferenza e la propria umiliazione riconosciuta da chi l’ha causata, “She didn’t want an apology. She wanted her life back”, reca suggestivamente il trailer del film irlandese “The meeting”, in cui la vittima di una brutale violenza sessuale cerca risposte nell’autore della condotta uscito dal carcere.
Del resto, se è vero che nessuna vittima di reato dovrebbe essere costretta a confrontarsi con il suo autore, specularmente a nessuna vittima dovrebbe essere negata la possibilità di incontrarlo ove sia la stessa a desiderarlo, a pena altrimenti di ri-vittimizzarla, rendendola soggetto incapace di autodeterminarsi ad un incontro con il proprio aggressore.
E se l’incontro non è in grado di cambiare il passato, può realmente contribuire a fare in modo che il male che è accaduto non si ripeta più: “mi ha aperto una finestra per comprendere il male che avevo fatto e avere così una possibilità di riscatto. Molti non lo sanno, ma forse la cosa più terribile del carcere è accorgersi che si soffre per nulla. Ed è terribile comprendere che il nostro dolore non serve a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati”. Queste le parole di un detenuto, che lasciano comprendere come l’autore di reato possa realmente essere messo in condizione di comprendere il significato di una decisione giudiziaria senza subirla passivamente, di riconoscere i propri comportamenti come qualcosa di agito e non subito, qualcosa di cui è dunque pienamente responsabile.
Riportando le considerazioni di un professionista del Centro per la mediazione sociale e dei conflitti di Padova, “è un grande atto di coraggio che diamo anche a lui. Perché incrociare lo sguardo della persona a cui tu hai fatto del male non è semplice (…) Per il reo è un’opportunità di consapevolezza, di andare a vedere quello che ha causato il suo gesto, di ascolto che forse non capiterà mai alle persone di ascoltare il dolore provocato dal tuo gesto, dunque, si lavora in quella direzione e la persona ha la grande opportunità di andare a rivedere quello che ha commesso in maniera critica, con un’ottica poi preventiva. E’ un grande lavoro emotivo anche per chi commette questi reati”.
Lavoro che proprio nell’ambito dei delitti di violenza domestica, può oggettivamente contribuire a rimuovere la tendenza degli autori di reato ad effettuare semplificazioni liquidatorie e autoconsolatorie, scaricando sulle vittime il peso emotivo delle condotte criminose compiute e piuttosto, avviandoli verso quel percorso di destrutturazione degli stereotipi culturali di matrice patriarcale e maschilista di cui tanto si parla.
Specularmente, consentire alla vittima di emanciparsi dal ruolo di “parte debole”, riacquistando potere rispetto alla gestione e alla sicurezza della propria vita quotidiana e di relazione[22].
La rivoluzione culturale non deve (soltanto) partire dalla famiglia, dalle scuole, dalle istituzioni, dalle manifestazioni e dai cortei.
Deve partire (anche) da chi -autori e vittime-, quel cliché l’ha vissuto e agito, attraverso modalità relazionali collegate all’esercizio del possesso come modo di stare nelle relazioni affettive ed al tentativo disperato del dominio, con il controllo, la pretesa, l’obbligo, la provocazione, la diffidenza, la violenza e la distruzione di quel che non si può ottenere. Attraverso la rimozione di emozioni quali la paura, la tristezza, l’empatia, da sempre negate nel processo educativo dei bambini maschi.
Attraverso l’adesione a modelli ancorati a ruoli di genere ben definiti, caratterizzati dalla legittimazione del potere dell’uomo sulla donna, l’imposizione delle funzioni di cura e affettive in capo alla donna, l’assenza della figura femminile dai contesti sociali, politici e del lavoro.
Ed è certo che il dialogo, quale componente essenziale della giustizia riparativa non potrà mai sanare le ferite passate, specialmente per questa tipologia di reati, non consentirà mai di riavvolgere la pellicola e magari non indurrà mai l’autore ad un’ammissione di colpevolezza.
Ma potrà evitare che, subendo la pena, l’autore del reato si separi dal proprio passato, lasciando cadere le ferite provocate nell’oblio[23] o anestetizzandole con il denaro e consentire, piuttosto, ai singoli protagonisti di riappropriarsi del male vissuto e, con l’esperienza raccontata e rielaborata, divenire parti attive del “processo di ricucitura del tessuto sociale lacerato dal reato”, ridisegnando ruoli e modalità dinamiche, per fare in modo che quel che è accaduto non si ripeta, all’interno delle mura domestiche, così come nella vita dei figli, nelle comunità di appartenenza, della società.
A fronte della natura quasi utopistica di una simile visione, terreno facile per i commentatori contrari all’utilizzo della Restorative Justice, i numeri dell’esperienza concreta delle prime applicazioni della disciplina organica della Riforma del 2022, -caratterizzata da un inaspettato favor reparationis per le vicende di violenza relazionale di genere- impongono comunque ai giuristi lo sforzo ed il coraggio di individuare strumenti e meccanismi in grado di superare in qualche modo le criticità e le preoccupazioni rilevate rispetto alla fattibilità del meccanismo anche nel travagliato ambito delle relazioni familiari violente.
Gli strumenti, le cautele, gli accorgimenti esistono.
Occorre, in primo luogo, avere chiarezza sul fatto che la giustizia riparativa non è chiamata in via generale a sostituirsi alla risposta penale, ma si inserisce accanto ad essa, in chiave di complementarietà anziché di alternatività rispetto alla risposta tradizionale al reato, consistente nel processo penale e nell’inflizione ed esecuzione della pena.
In questo senso, le pratiche di giustizia riparativa devono sempre essere poste come una modalità di gestione dei conflitti che “non si situano né nella legge né fuori della legge, ma all’insegna della legge”[24]; e proprio al giudice, in assenza di una cornice formale entro la quale collocare l’incontro vittima-reo, spetta garantire che l’applicazione della legge resti prerogativa dell’apparato statale, proprio al fine di mantenere un elevato livello di sicurezza delle vittime e la partecipazione realmente volontaria delle parti, evitando con la giurisdizionalizzazione del sistema il prospettato rischio di ri-privatizzazione della violenza domestica.
È fondamentale l’aspetto della formazione e della professionalità del mediatore, il quale dev’essere empatico, in grado di immedesimarsi nell’esperienza raccontata in sua presenza, pur rimanendo da essa intimamente distaccato sotto il profilo emotivo; con un significativo bagaglio di capacità comunicative e di negoziazione e con l’attenzione concentrata più sul processo mediativo che sul risultato, consapevole che l’esito positivo di un percorso di mediazione non coincide necessariamente con una riconciliazione ma con il raggiungimento di una diversa percezione dell’altro, di un diverso modo di relazionarsi e di rileggere l’accaduto.
Del pari, è fondamentale la formazione di giudici e avvocati, questi ultimi anche al fine di segnalare possibili situazioni di violenza non note al mediatore.
E’ necessario che il mediatore lavori costantemente in equipe, giacchè proprio la pluralità dei punti di vista consente di comprendere se il consenso alla partecipazione al programma, specialmente da parte delle vittime, sia libero e consapevole e, più a monte, quali siano le reali motivazioni sottese alla volontà di adesione all’incontro, se connesse a ragioni utilitaristiche, al desiderio di interrompere la relazione o al contrario, di mantenerla, in questi casi prestando la massima attenzione alle situazioni di squilibrio di potere ed alle motivazioni alle stesse sottese, cogliendo eventualmente i segni di una violenza economica, dell’influenza di soggetti terzi o del timore di futuri atteggiamenti ritorsivi.
È per l’effetto imprescindibile che, specialmente nelle situazioni di evidente sbilanciamento, sia garantita un’informazione effettiva, completa ed obiettiva circa i programmi proposti, ai sensi dell’art. 47, terzo comma, D. L.vo n. 150/2022, affinché la vittima possa esprimere validamente il proprio consenso e giunga comunque all’incontro “preparata” alle domande alle quali potrebbe dover rispondere, scongiurando il rischio di una seconda vittimizzazione.
Soprattutto, laddove siano presenti sintomi evidenti della c.d. spirale della violenza[25], è importante comprendere in quale fase -se di avvicinamento e riappacificazione- si trovi la donna al momento dell’approccio al meccanismo, per evitare che un eventuale esito riparativo positivo sia soltanto apparente, eventualmente adeguando i tempi del programma al processo di elaborazione della violenza da parte della vittima.
Ciò nella consapevolezza dell’esperienza maturata presso i Centri Antiviolenza, ove molte donne interrompono il percorso e poi tornano, secondo il fenomeno denominato dello “Stop and go”, -evidentemente collegato al ciclo della violenza ed agli effetti della violenza ed al trauma che produce-, in cui la richiesta di aiuto diventa un percorso a tappe, ciascuna delle quali determinata da una consapevolezza maturata in tempi che non possono essere precorsi e segnata da ingenti costi in termini di sofferenza[26].
In questo senso, è in ogni caso opportuno che la vittima non sia lasciata sola, ma si trovi ad un tavolo al quale, ai sensi dell’art. 45 D.L.vo n. 150/2022, possono sedersi anche altri soggetti appartenenti alla comunità, i familiari, o le persone di supporto, enti ed associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, autorità di pubblica sicurezza, servizi sociali, rappresentanti di enti pubblici e chiunque vi abbia interesse e possa prestare supporto, come coloro che operano nei servizi di assistenza alle vittime e tra questi, anche nei Centri antiviolenza.
In particolare, è basilare la creazione di una rete che rafforzi la conoscenza reciproca tra Centri per la giustizia riparativa e Centri antiviolenza e che dia la possibilità di indirizzare a questi ultimi le vittime, non soltanto al fine di consentire una adeguata valutazione del rischio, ma altresì per affiancarle con un’attività specifica di ascolto ed elaborazione dei sentimenti -che non si limiti a rimuovere i profili di victim blaming, ma si interessi primariamente dei disagi delle persone coinvolte- consolidando la tecnica del c.d. victim contact working e supportando gli interventi istituzionali tesi a favorire la rielaborazione del trauma e la ri-costruzione della fiducia nell’ordinamento e nella giustizia.
È urgente la predisposizione di meccanismi di agevolazione dell’accesso alle misure, con un servizio di consulenza gestito sulla base di condivisi protocolli operativi e supportato da un osservatorio permanente idoneo a garantire il monitoraggio e l’analisi delle questioni, oltre che la pianificazione delle iniziative necessarie ad uniformare i parametri valutativi e adattare i modelli alle situazioni concrete.
Ed è sotto tale profilo auspicabile lo scambio di pratiche fruttuose con altri paesi dell’Unione Europea[27], finalizzato all’individuazione di modelli di mediazione caratterizzati da un risk assessmente approach, oltre che adeguati alla complessità dei singoli casi, che sappiano andare oltre l’obiettivo abitualmente atteso dalla mediazione, approfondendo per i casi di violenza domestica il complesso intreccio di profili culturali oltre che psicologici e relazionali sul quale insorgono e definendo le situazioni in cui il mediatore può rifiutare il percorso o addirittura deve derogare alla tutela del segreto di cui all’art. 52 D.L.vo n. 150/2022.
Sebbene posto su un piano parallelo, è importante verificare le ricadute che il programma di giustizia riparativa può avere nell’ambito del procedimento penale, allorché ad esempio è ancora in corso la fase di raccolta degli elementi di prova ed è assai elevato il rischio che comportamenti riconcilianti della vittima sfocino in vere e proprie ritrattazioni, motivate dalla speranza di un cambiamento del partner.
In questo senso, resta ferma l’imprescindibilità del potere del giudice di negare l’accesso al programma nei casi gravi e complessi in cui, ai sensi dell’art. 129-bis terzo comma, c.p.p., sia ravvisabile un “pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti”, sulla scorta di un apprezzamento del rischio non necessariamente ancorato all’assenza atteggiamenti di resipiscenza ovvero anche soltanto alla confessione, ma implicante comunque una sommaria analisi delle dinamiche relazionali su cui si sono sviluppate e consumate le condotte violente, del reale disvalore dei fatti, della fase del procedimento e del grado di emancipazione raggiunto dalla vittima rispetto alla vicenda, con uno sforzo formativo necessario a non incorrere in trappole valutative, ricadendo nei meccanismi atavici ed inconsapevoli che, anche nel pensiero dei giudici, tendono a ridimensionare la violenza domestica o a colpevolizzare le vittime.
Capire, cominciare, confrontarsi, condividere, implementare.
La giustizia riparativa non è solo un’idea[28]. Non è più soltanto un’idea.
È un servizio pubblico, sicché richiede personale esperto, indicazioni concrete, criteri specifici, linee guida, coinvolgimento degli enti locali e del territorio, forse anche obblighi deontologici con conseguenze in caso di inadempienza.
È una sfida che nell’ambito dei casi di violenza endofamiliare forse vale davvero la pena di cogliere, di fronte ad un’allarmante escalation di gesti estremi ed efferati anche tra le generazioni più giovani, probabilmente ascrivibile ad una difficoltà di sentire e pensare le emozioni nella dinamica dei rapporti (e la violenza è sempre frutto di emozioni non pensate), valorizzandole come risorsa di conoscenza invece di agirle.
Dopo tutto, come affermato da un acuto giurista, non si tratta di abbandonare la strada vecchia, ma di migliorarla, aprendo intersezioni che portino ad una giustizia migliore, più conforme ai principi della nostra Costituzione e all’idea visionaria, oggi come nel 1947 e al tempo stesso pregna di solido buon senso e di realismo-, “che nessun uomo è realmente perduto per sempre, qualunque cosa abbia fatto; e che tutti abbiano la possibilità di riconciliarsi con il passato, con le proprie vittime e con l’intera comunità”[29].
E’ nel passaggio nel ventre del Pescecane, metafora collegata al viaggio introspettivo alla ricerca della parte più profonda e inaccessibile del sé, che il burattino della nota favola di Collodi incontra Geppetto, legge negli occhi del vecchio padre le afflizioni che gli ha procurato, in una parossia che gli consente di rivedere le proprie malefatte, e come una maieutica, avviare un rinnovamento emotivo. Piantare quel fragile seme di sofferenza e umanità condivise ove risiede la speranza di salvarsi.
La speranza di poter dire “mai più”.
Alessia Solombrino
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[1] Sono evidentemente nomi di fantasia.
[2]E’ curioso, peraltro, che, nel testo della Convenzione allegato alla legge di ratifica, la disposizione citata, in un primo momento era stata tradotta nel senso di un divieto assoluto e generalizzato al ricorso alla giustizia riparativa e che, soltanto con un significativo ritardo, con un comunicato pubblicato in G.U. n. 278 del 28 Novembre 2017, è stata risposta la rettifica del testo.
[3]Elena Mattevi, Giustizia riparativa e violenza di genere. Brevi considerazioni su una relazione possibile, a certe condizioni; in Sistema Penale, Dicembre 2024.
[4] Elena Biaggioni, Giustizia riparativa e violenza di genere. Una relazione tossica e pericolosa, in Sistema penale, Dicembre 2024.
[5] A.C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Pagine sparse di diritto e storiografia, Milano, 1957.
[6] E’ curioso, in verità, che, ancor prima della Convenzione di Instanbul, una definizione di violenza domestica sia stata prevista dall’art. 18-bis D.L.vo n. 286/98 (“Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”), ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno, palesando una sorta di intuitiva associazione tra questo fenomeno e i cittadini stranieri.
[7] Marco Venturoli, La “centralizzazione” della vittima nel sistema penale contemporaneo tra impulsi sovranazionali e spinte populistiche, in Archivio penale, 2021, n. 2
[8] Tullio Padovani, L’assenza di coerenza mette a rischio la tenuta del sistema, in Guida al diritto, n. 37/2019.
[9] Barbara Moretti, La violenza sessuale tra conoscenti. Giuffré, 2005.
[10] D. Micheletti, Il paternalismo penale giudiziario e le insidie della bad samaritan jurisprudence, in Criminalia, 2011.
[11] Luigi Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo. Tra paternalismo e legittimazione del potere coercitivo, Aracne, 2012.
[12] Gian Luigi Gatta, La giustizia riparativa: una sfida del nostro tempo, in Sistema penale, Ottobre 2024.
[13]G. Fiandaca, Il giudice tra giustizia e democrazia nella società complessa, in G. Fiandaca, Il diritto penale tra legge e giudice, 2022.
[14] M. Minafra, La tutela delle vittime di violenza domestica e di genere alla luce della riforma Cartabia, in Revista Internacional de Vitimologia e Justica Restaurativa, 2023, vol. n. I.
[15] H. ZEHR, Changing Lenses. A New Focus on Crime and Justice, Scottdale, 1990.
[16] Silvia Corti, Giustizia riparativa e violenza domestica in Italia: quali prospettive applicative?, in Diritto penale contemporaneo, Settembre 2018.
[17] J. P. Guinle, Hegel et la vengeance, in G. Courtois (a cura di), La vengeance dans la pensée occidentale, Cujas, Paris, 1984.
[18] Francesco Viganò, Verità e giustizia riparativa, Relazione svolta in occasione del 73° Convegno Nazionale di Studio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, Quid est veritas? La dialettica verità-certezza nell’esperienza giuridica, Catania, 24-26 Novembre 2023.
[19] Anna Lorenzetti e Roberta Ribon, Giustizia riparativa e violenza di genere: alla ricerca di un possibile dialogo, in Giudice Donna, 2024.
[20]Nadia Muscialini, Mario De Maglie, In dialogo – Riflessioni a quattro mani sulla violenza domestica, Settenove, 2017.
[21] Francesco Viganò, Verità e giustizia riparativa, Relazione svolta in occasione del 73° Convegno Nazionale di Studio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, Quid est veritas? La dialettica verità-certezza nell’esperienza giuridica, Catania, 24-26 Novembre 2023.
[22] Adolfo Ceretti, Violenza intrafamiliare e Mediazione, Franco Angeli, 2006.
[23] C. Mazzuccato, La giustizia dell’incontro, in G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato (a cura di) Il libro dell’incontro, Milano 2015.
[24] A. Ceretti, Mediazione penale e giustizia. In-contrare una norma.
[25] Il modello della spirale della violenza è stato elaborato dalla psicologa americana Lenore E. Walker nel 1979 e descrive le fasi cicliche e ripetitive che caratterizzano le relazioni abusive: il partner è inizialmente una persona amabile e non si mostra come violento, in una qualche fase c’è un primo episodio di violenza che sconvolge, disorienta e spaventa la donna. Segue una fase in cui l’autore della violenza si scusa, si pente, promette che non accadrà più, si comporta in modo amorevole, con tutte le attenzioni, mostrando alla donna che è stato solo un momento, dovuto a circostanze esterne o reattivo a qualcosa che ha fatto lei. La donna rivede così l’uomo di cui si è innamorata, accetta le scuse e resta nella relazione. Questa alternanza di ripete a cicli e nel tempo le fasi di riappacificamento diventano sempre più brevi e la violenza di aggrava. Nel frattempo, la donna è sempre più confusa, non riesce più ad orientarsi rispetto alla persona che ha davanti, vive un’altalena di emozioni, tende ad isolarsi, si stacca sempre di più da una visione obiettiva di quel che accade ed è sempre più esposta a manipolazioni e violenze psicologiche.
[26] Silvia Corti, Giustizia riparativa e violenza domestica italiana: quali prospettive applicative?, in Diritto penale contemporaneo, Settembre 2018.
[27]Sei paesi hanno costruito un parternariato nella realizzazione di un progetto denominato “Giustizia riparativa in casi di Violenza domestica”, proprio per favorire lo scambio di punti di vista critici e buone prassi tra gli operatori.
[28] G.L. Gatta, La Giustizia riparativa: una sfida del nostro tempo, in Sistema penale, Ottobre 2024.
[29] Francesco Viganò, Verità e giustizia riparativa, Relazione svolta in occasione del 73° Convegno Nazionale di Studio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, Quid est veritas? La dialettica verità-certezza nell’esperienza giuridica, Catania, 24-26 Novembre 2023.