
Il contributo elaborato dalla Giudice dott.ssa Monica Bertoncini, Presidentessa della Sezione Lavoro del Tribunale di Bergamo, offre un’interessante panoramica degli ultimi approdi giurisprudenziali in relazione al rapporto tra disabilità e licenziamento per superamento del periodo di comporto.
La disabilità ed il superamento del periodo di comporto ai fini del licenziamento nelle recenti pronunce della Suprema Corte
La disabilità è tutelata da diverse fonti normative, sia di diritto eurounitario, sia di diritto interno, e si tratta in particolare: degli artt. 21 e 26 Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea; degli att. 9,10,19 del Trattato dul Funzionamento dell’UE; degli artt. 3 e 5 della Direttiva 2000/78/CE; degli artt. 2 e 3 D.lgs. 216/03; dell’art. 15 della Carta Sociale Europea; dell’art. 14 della CEDU.
La Direttiva 2000/78/CE adotta il termine handicap senza fornirne una definizione, perciò in base al principio dell’applicazione uniforme del diritto comunitario la nozione di handicap è stata oggetto di un’interpretazione autonoma e uniforme da parte della Corte di Giustizia Europea a partire dalla sentenza Chacón Navas (Causa C-13/05) in cui si è affermato che il legislatore europeo, nell’adottare il termine handicap e non quello di malattia, ha compiuto una scelta consapevole, per cui va esclusa un’assimilazione pura e semplice delle due nozioni.
L’handicap è stato definito come “limitazioni che risultano da lesioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacolano la partecipazione della persona alla vita professionale”, ponendo in rilievo “la lunga durata dello stato limitante da cui è affetta la persona con handicap” (sentenza Chacón Navas, Causa C-13/05).
Pertanto, la malattia in quanto tale non può essere considerata un fattore di rischio aggiuntivo rispetto a quelli di cui alla Direttiva 2000/78 se non possiede tali caratteri.
Nel 2011 (Cause Riunite C-335/11 e C-337/11, HK Danmark), la Corte di Giustizia Europea ha chiarito che la nozione di handicap ai sensi della Direttiva 2000/78 “include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione di lunga durata, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che – interagendo con barriere di diversa natura – possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”.
Alla luce di tali principi può quindi affermarsi che non è una qualsiasi malattia ad integrare il fattore di rischio oggetto di tutela, ma solo quella malattia che possiede i requisiti individuati dalla giurisprudenza eurounitaria.
Quella di handicap non è dunque una definizione «biomedica», poiché non comprende solo handicap congeniti o acquisiti, prescinde dal raggiungimento di una precisa soglia di inabilità al lavoro ed è il risultato della interazione tra menomazioni durature di varia natura e gli ostacoli che si frappongono alla partecipazione alla vita sociale.
In ambito nazionale la Suprema Corte, con diverse sentenze, si è adeguata a tali principi, chiarendo che “la nozione di disabilità, anche ai fini della tutela in materia di licenziamento, deve essere costruita in conformità al contenuto della Direttiva n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000, sulla parità di trattamento in materia di occupazione, come interpretata dalla CGUE, quindi quale limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (Cass. Civ. sent. 13649/19; Cass. 17867/16 e Cass. 27243/18).
In ambito giuslavoristico ciò che recentemente si pone con sempre maggior frequenza all’attenzione della giurisprudenza è il rapporto tra la disabilità (o più precisamente l’assenza per una malattia tale da integrare il concetto di disabilità) ed il cosiddetto periodo di comporto.
Quest’ultimo è disciplinato dall’art. 2110, 2° comma, c.c. secondo cui “nei casi indicati nel comma precedente [malattia, infortunio], l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità”.
In pratica, il datore di lavoro non può licenziare il lavoratore malato o infortunato fintanto che non sia scaduto il termine di conservazione del posto di lavoro (cosiddetto termine di comporto) appositamente stabilito dai contratti collettivi.
La previsione dell’art. 2110, comma 2, c.c. rappresenta un’astratta predeterminazione (legislativo- contrattuale) del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o di infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale (Cass. Civ., SS.UU. 12568/18).
Il problema legato alla disabilità è quello per cui l’applicazione del medesimo periodo di comporto ai lavoratori normodotati ed a quelli disabili svantaggia questi ultimi generando una discriminazione indiretta, sul presupposto che per i secondi è molto più elevata la probabilità di assentarsi a causa delle loro condizioni di salute.
Quindi, se il datore di lavoro applica al lavoratore disabile lo stesso periodo di comporto previsto per il lavoratore normodotato senza applicare alcun “accomodamento ragionevole”, il licenziamento intimato al disabile per superamento del periodo di comporto integra una discriminazione indiretta e va dichiarato nullo perché discriminatorio (con tutela reintegratoria, tanto nel regime di cui all’art. 18 l. 300/70, quanto in quello di cui al d.lgs. 23/15).
Gli accomodamenti ragionevoli sono disciplinati innanzi tutto dall’art. 5 della Direttiva 2000/78, secondo cui “per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.
In ambito interno, l’art. 3, comma 3 bis, d.lgs. 216/03 stabilisce che “al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (…) nei luoghi di lavoro per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori (…)”.
Il tema è quindi assai delicato, coinvolgendo contrapposti interessi: quello del disabile alla conservazione del posto di lavoro e quello dell’impresa di non doversi fare carico a tempo indefinito delle disfunzioni organizzative cagionate dalle assenze per malattia del disabile.
In questo ambito si inserisce poi il tema della conoscenza o conoscibilità, da parte del datore di lavoro, a cui è richiesto di verificare l’esistenza di accomodamenti ragionevoli prima di procedere al licenziamento, della natura delle patologie determinanti le assenze del dipendente.
Va poi considerato che, se certamente la discriminazione opera oggettivamente, ciò che viene imputato al datore di lavoro è di aver attuato una discriminazione per aver applicato al lavoratore disabile lo stesso periodo di comporto previsto per il normodotato, senza aver adottato accomodamenti ragionevoli.
Nell’ambito della giurisprudenza di merito le soluzioni sono state le più diversificate, sino a che non è intervenuta la Suprema Corte affermando, in una prima pronuncia del 2023, che “in tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio” (così Cass. civ. sent. n. 9095 del 2023).
Negli stessi termini si sono espresse l’ordinanza n. 35747 del 2023 e la sentenza n. 11731/24, entrambe riguardanti situazioni in cui la cui condizione di disabilità era conosciuta dal datore di lavoro che aveva proceduto al licenziamento per superamento del periodo di comporto senza aver verificato, né adottato alcun accomodamento ragionevole.
Con una successiva la sentenza, la n. 15282/24, la Suprema Corte ha chiarito più nel dettaglio i principi che regolano la materia.
La Corte, dopo aver ribadito il carattere oggettivo della discriminazione, ha attribuito rilevanza alla conoscenza o alla conoscibilità del fattore discriminatorio (ovvero della condizione di disabilità) nell’accertamento della sussistenza di una esimente per il datore di lavoro al fine di rendere praticabili gli accomodamenti ragionevoli.
Sono state enucleate “due ipotesi in caso di licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto: la prima, in cui il datore di lavoro abbia colpevolmente ignorato la disabilità del dipendente; la seconda, in cui il fattore di protezione, pur non risultando espressamente portato a conoscenza del datore di lavoro, avrebbe potuto essere ritenuto reale secondo un comportamento di questi improntato a diligenza” (Cass. civ. sent. Sent. 15282/24).
I casi in cui la disabilità è conosciuta dal datore di lavoro sono quelli, per esempio, in cui il lavoratore è stato assunto ai sensi della legge n. 68/1999 ovvero ha rappresentato, nella comunicazione delle assenze o in qualsiasi altro modo, la propria situazione di disabilità alla parte datoriale.
Vi sono però anche casi in cui, pur in presenza di una formale omessa conoscenza, questa non può ritenersi incolpevole perché il datore di lavoro era in grado di averne comunque consapevolezza per non avere, ad esempio, effettuato correttamente la sorveglianza sanitaria ex art. 41 d.lgs. 81/2008 ovvero perché le certificazioni mediche e/o la documentazione inviate erano sintomatiche di un particolare stato di salute costituente una situazione di handicap (nella particolare accezione già chiarita).
In entrambi i contesti “per il datore di lavoro sorge, prima di adottare un provvedimento di licenziamento per superamento del periodo di comporto, un onere di acquisire informazioni – cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore – circa la eventualità che le assenze siano connesse ad uno stato di disabilità e per valutare, quindi, gli elementi utili al fine di individuare eventuali accorgimenti ragionevoli onde evitare il recesso dal rapporto (cfr. Cass. n. 11731 del 2024, par. 7.2)” (Cass. civ. sent. Sent. 15282/24).
Pare quindi potersi concludere che l’accomodamento ragionevole per essere esigibile non può prescindere dalla conoscenza o conoscibilità della disabilità da parte del datore di lavoro.
A carico del datore di lavoro sussisterebbe un obbligo di lavoro di chiedere informazioni al lavoratore (prima di irrogare il licenziamento ed al fine di verificare la sussistenza di accomodamenti ragionevoli oppure anche successivamente al licenziamento al fine, ad esempio, di valutare se revocarlo) ed un corrispondente obbligo del lavoratore di fornirle.
Tuttavia, in caso di mancanza di cooperazione da parte del lavoratore risulta comunque difficile non pervenire ad una pronuncia di nullità del licenziamento (operando appunto la discriminazione oggettivamente), ma la condotta di costui potrebbe rilevare ai fini di una riduzione del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1227 c.c..
In questo difficile contesto la soluzione auspicabile è quella di una presa d’atto della contrattazione collettiva (o del legislatore) poichè sino ad allora sarà la giurisprudenza a dover adottare ed adattare soluzioni, sempre diverse poiché calate nella specificità dei singoli casi, con grave compromissione delle esigenze di certezza del diritto.