Daniela D’Adamo – Avvocata del Foro di Bergamo e Docente di Diritto processuale civile avanzato e di Diritto e risoluzione dei conflitti di famiglia, Dipartimento di giurisprudenza Università degli studi di Bergamo.
L’emozione che ha voce: un ruolo chiave nella risoluzione consensuale dei conflitti delle famiglie.
Quando il tema della risoluzione consensuale dei conflitti di famiglia diventa un corso universitario qualcosa è successo. Cambiano i paradigmi degli studi giuridici e cambia l’approccio alla tutela dei diritti. Così, il giorno dopo l’ultima lezione del nuovo corso che ho tenuto proprio su questi temi all’Università di Bergamo, mi trovo a meditare su questa incredibile esperienza umana, prima ancora che didattica.
Durante il corso – rivolto agli studenti del quarto e quinto anno della Laurea magistrale in Giurisprudenza e che, mi dicono, essere unico in Italia – ho cercato di fornire gli strumenti per la risoluzione dei conflitti al di fuori del tribunale, in una materia, come quella della famiglia, in cui le relazioni sono fondamentali.
A lezione abbiamo avuto camei di psicologi, negoziatori, mediatori familiari, coordinatori genitoriali e di un sacerdote che con un approccio laico ha raccontato la sua esperienza sulle relazioni e sui conflitti. Gli studenti si sono messi a nudo, raccontando le loro storie e i modi in cui affrontano le loro fatiche e hanno avuto occasione di sperimentare da vicino le diverse tecniche attraverso la simulazione di casi.
Si è parlato di diritto, ma si è parlato anche di emozioni e di bisogni. Al termine di questo cammino ho messo meglio a fuoco una riflessione che avevo in pancia da tempo: al di fuori dei casi di violenza, in materia di famiglia, è quasi sempre possibile risolvere i conflitti attraverso la ricerca di accordi su misura delle persone coinvolte. In questo contesto, molto spesso, la differenza non la fanno le parti, ma i professionisti e le professioniste che le accompagnano. Noi avvocati in questo scenario abbiamo un compito difficilissimo e, ancor più arduo, a mio parere, rispetto alla difesa processuale dei nostri clienti.
Oltre alla competenza nell’utilizzo di istituti come la negoziazione assistita, la mediazione familiare e la coordinazione genitoriale – che in quanto operatori del settore siamo tenuti a conoscere per poterli, a seconda dei casi, applicare o consigliare ai nostri assistiti – dobbiamo essere in grado ascoltare le storie, e di riconoscere i bisogni sottesi e i reali interessi delle parti.
In questo compito dobbiamo misurarci con le tecniche negoziali che richiedono l’acquisizione di competenze specifiche ma dobbiamo anche imparare a “maneggiare” le emozioni: quelle delle parti ma anche le nostre per capire come veicolarle, senza che esse interferiscano nella ricerca della soluzione più adeguata a quella data famiglia.
Nella mia esperienza, ripensando a molti casi in cui la negoziazione è fallita, mi rendo conto che siamo stati proprio noi professionisti a contribuire in maniera decisiva alla rottura delle trattative. Questo è accaduto perché, a mio parere, non siamo stati in grado di incanalare in modo costruttivo le emozioni di tutti coloro che hanno preso parte al tavolo negoziale.
Allo stesso modo, quando le parti hanno raggiunto un accordo si è rivelato fondamentale il nostro apporto in termini di ascolto, di cura e di accoglienza delle emozioni messe in campo; il che ha spesso permesso di trovare, o meglio di far trovare ai nostri assistiti, la soluzione giusta per loro. Per questo motivo credo che gli studi universitari e la formazione di chi assiste le famiglie nella risoluzione delle crisi dovrebbe passare, oltre che attraverso lo studio delle tecniche negoziali, dal lavoro di riconoscimento delle emozioni e delle fatiche di tutti i soggetti coinvolti, comprese quelle di noi professionisti, affinché esse non rappresentino un ostacolo, ma al contrario diventino una risorsa.
Attraverso l’ascolto umano ed emotivo di tutte le parti in gioco e grazie al confronto corale con le diverse competenze che si intrecciano, riusciremo, forse, a tutelare meglio i diritti di chi richiede assistenza in uno dei momenti più difficili della propria vita.